Le origini del Cristianesimo: in età imperiale erano diffuse diversi tipi di religione, spesso contrapposte a quella ufficiale. Tuttavia, agli inizi del IV secolo il Cristianesimo era ancora poco praticato.
Origini del Cristianesimo: cronologia della diffusione
Le origini del Cristianesimo iniziarono nel I secolo d.C. a seguito delle predicazioni di Gesù di Nazaret e dei suoi discepoli. Nella sua fase iniziale, il Cristianesimo appariva caratterizzato dall’annuncio dell’imminente ritorno di Cristo (parusia), che sarebbe avvenuta dopo la distruzione e la rigenerazione del mondo in un regno perfettamente equo e giusto. Era questa una dottrina che rispondeva all’esigenza di giustizia individuale, accompagnata dalla dura critica ai modi vita civili e sociali dell’epoca. Il Cristianesimo si basava su un rigoroso monoteismo che si traduceva in insegnamenti morali e opere di assistenza e solidarietà verso poveri e bisognosi.
Furono essenzialmente questi gli elementi che ne decretarono il successo e la sempre più capillare diffusione in tutti i ceti della popolazione dell’Impero Romano, soprattutto nelle città della parte orientale. Al I e il II secolo risalgono le notizie delle prime comunità cristiane in Palestina, Siria e Grecia ma anche Roma e Cartagine. Tra il II e III secolo si assistette alla diffusione del Cristianesimo in Africa settentrionale, Italia, Gallia e penisola iberica.
I rapporti tra il Cristianesimo e l’Impero romano
Per lungo tempo le autorità imperiali romane ignorarono i cristiani e i seguaci di altre religioni che nascevano e si diffondevano entro i confini. Tuttavia, a partire dal II secolo emersero i primi atteggiamenti di ostilità. Questi si intensificarono nel corso del III secolo poiché i cristiani rifiutavano di riconoscere le divinità pagane e di pagare i tributi per il culto dell’imperatore.
Tali furono i principali motivi per i quali, alle origini del Cristianesimo, i nuovi seguaci furono discriminati e perseguitati. Essi erano visti come traditori dell’impero e dell’imperatore. Le peggiori persecuzioni avvennero sotto gli imperatori Decio (249-251), Valeriano (257-258) e Diocleziano. Quest’ultimo si impegnò particolarmente nell’opera di restaurazione della religione ufficiale e del culto dell’imperatore, sottoponendo i cristiani alla più dura delle persecuzioni nel 303 e 304.
L’età di Costantino e l’affermazione del Cristianesimo
Tutto cambiò con l’imperatore Costantino. Da un lato, egli si rese conto che sconfiggere il Cristianesimo era difficile, dall’altro, l’autorità costituita riconobbe che la nuova religione aveva la capacità di dare supporto alla vita sociale e politica dell’impero essendo fortemente unitaria e organizzata. L’atteggiamento benevolo da parte dell’imperatore diede un’eccezionale spinta alla diffusione del Cristianesimo e ciò cambiò notevolmente i modi di vita della società romana.
La nuova situazione fu ufficialmente riconosciuta con l’editto di Milano, emanato nel 313 da Costantino e dall’imperatore per l’oriente, Licinio. L’editto riconosceva la libertà di culto per i cristiani, ai quali inoltre vennero restituiti i beni confiscati in precedenza. Altre leggi riconobbero negli anni successivi la nuova condizione dei cristiani. Ad esempio, il clero fu esentato dal pagamento delle tasse, poteva affrancare schiavi e le cause giudiziarie dovevano essere trattate dai tribunali ecclesiastici.
Giuliano l’Apostata e l’editto di Tessalonica
Con Giuliano, detto l’Apostata (361-363), la situazione cambiò ancora. Secondo il progetto di rifondazione dell’Impero da lui nutrito, egli tentò di riportare in auge il paganesimo, rispolverando atteggiamenti ostili verso i cristiani. Ma Giuliano morì poco dopo e i suoi successori ristabilirono i diritti fino allora concessi ai seguaci del Cristianesimo.
Teodosio fu invece l’autore dell’editto di Tessalonica del 380 che riconobbe il Cristianesimo come l’unica religione ufficiale dell’Impero. Il paganesimo fu messo al bando, i templi furono chiusi o convertiti in chiese cristiane. L’editto di Teodosio stabiliva, dunque, che i sudditi dell’Impero dovevano seguire la religione cristiana, secondo l’insegnamento della Chiesa romana.
Lo sviluppo del Cristianesimo e le controversie dottrinali
Tra il II e il IV secolo, assieme alla diffusione del Cristianesimo, si lavorò alacremente per la sua elaborazione dottrinale in modo da costituire una vera e propria teologia cristiana. Dal II secolo, le tendenze millenaristiche ed escatologiche avevano avuto sempre minore importanza, mentre una fervida letteratura apologetica, nata per supportare la nuova religione, fu particolarmente attiva nel controbattere alle accuse mosse al Cristianesimo. In questo senso si ricordano soprattutto le opere di Tertulliano, di Minucio Felice e di Cipriano che facevano luce sui principi e i valori etici e morali del Cristianesimo.
Ma ebbe grande sviluppo anche un’intensa attività per mettere a punto il nucleo e le fondamenta delle credenze cristiane, ponendosi contro certi orientamenti gnostici. Questi ultimi volevano ridurre i temi della predicazione cristiana entro i sistemi filosofici e religiosi greci e orientali. Protagonisti di tutte queste attività di elaborazione dottrinale e teologica cristiana furono i cosiddetti Padri della Chiesa. Essi erano pensatori, vescovi, teologi formatisi nei vecchi centri della cultura greca ed ellenistica. Fra i Padri della Chiesa ricordiamo Clemente detto l’Alessandrino (150-212), Origene (185-254), Ambrogio di Treviri poi vescovo di Milano (340-397), Agostino di Ippona (354-430), Gerolamo (347-420).
Le controversie dottrinali
Il Cristianesimo considerava Gesù come Verbo di Dio incarnato, uomo e Dio allo stesso tempo. Da ciò nasceva l’esigenza di chiarire la concezione della divinità, che era una e trina. Fu attorno a questioni di tale tipo che si svilupparono controversie dottrinali contro le quali si cercò tempestivamente di intervenire con la convocazione di concili ecumenici.
Questi avevano il compito di stabilire in via definitiva le credenze cristiane. Tramite le affermazioni stabilite dai concili ecumenici si formò gradualmente l’ortodossia (retta dottrinale) e l’apparato di dogmi (verità rivelate da Dio) della Chiesa, che furono utilizzati in contrapposizione alle eresie (dottrine imperfette).
L’arianesimo
Nel IV secolo si manifestò una controversia circa la vera natura di Cristo. Da un lato, Ario di Alessandria (256-336) sosteneva il principio della natura umana di Cristo, mettendo in secondo piano il suo essere divino e il principio unitario (l’esistenza in un unico Dio di tre persone, ovvero il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo). Dall’altro lato, il vescovo e teologo Atanasio sosteneva il principio della consustanzialità, cioè la coincidenza di sostanza e di natura del Figlio con il Padre. Per consustanziazione non si intende la completa sostituzione del corpo e del sangue di Cristo con il pane e il vino, ma la loro compresenza. La transustanziazione è la trasformazione della specie del pane e del vino nel corpo e sangue di Cristo. La dottrina di Atanasio prevalse e fu riconosciuta durante il concilio di Nicea del 325, convocato da Costantino che, in quell’occasione, decretò anche l’esilio di Ario.
Ma l’arianesimo continuò a fare seguaci, soprattutto in Oriente, da dove si diffuse anche tra le popolazioni barbare poste ai confini dell’impero. Vi aderirono personalità importanti e persino alcuni imperatori come Costanzo II e Valente. Ciò fece sì che il concilio di Costantinopoli del 360 riconoscesse invece la legittimità dell’arianesimo, anche se solo per alcune parti della sua dottrina. Nel 380, però, l’editto di Tessalonica, emanato da Teodosio, rese nuovamente fuori legge l’arianesimo, ristabilendo i deliberati già presi a Nicea (il credo di Nicea).
Nestorianesimo e monofisismo
Nel V secolo presero invece piede le questioni cristologiche. Una volta accertata la questione della trinità, il dibattito si spostò sulla questione della natura insieme umana e divina di Cristo. In questo senso, ebbe grande diffusione, soprattutto in Oriente, la dottrina di Nestorio, patriarca di Costantinopoli. Secondo il nestorianesimo la duplice natura di Cristo implicava l’esistenza di due persone, una umana e una divina. Ma il concilio di Efeso del 431 proclamò che la persona di Cristo è una e in essa convivono la natura umana e la natura divina.
Il concilio di Calcedonia del 451 dovette ribadire tale principio poiché, nel frattempo, un’altra dottrina, presente soprattutto in Siria ed Egitto, si era fatta avanti in tal senso. Si trattava del monofisismo, secondo il quale Cristo era dotato di un’unica natura, quella divina. Nonostante i divieti, alcune chiese di ispirazione monofisita sono sopravvissute fino ai giorni nostri, come la Chiesa copta.
Donatismo e priscillianesimo
Tra il III e il IV secolo nacque una controversia circa il valore e la validità dei sacramenti somministrati da sacerdoti e vescovi ritenuti eretici. Il vescovo di Numidia, Donato di Case Nere negava tale validità, ma contro di lui intervenne l’imperatore Costantino, preoccupato di salvare la reputazione dell’episcopato. Il donatismo fu così condannato ma continuò a diffondersi, soprattutto in Nord Africa, dove si caratterizzò anche per la sua denuncia sociale e politica, incontrando l’adesione della popolazione e degli schiavi.
Alla fine del IV secolo, in Spagna e nella Gallia meridionale, prese piede la dottrina del priscillianesimo, una specie di setta dal carattere fortemente ascetico, in cui giocavano un ruolo non indifferente anche motivazioni di riscatto sociale. Essa fu fondata dal vescovo spagnolo Priscilliano (385) che fu per questo accusato di stregoneria e ucciso per ordine del tribunale dell’imperatore. Quella di Priscilliano rappresentò la prima uccisione di un cristiano per eresia da parte di un tribunale civile.
Manicheismo e pelagianesimo
Alcune controversie riguardarono più propriamente temi teologici, come quelli della salvezza e della grazia, su cui discussero dottrine che furono giudicate eterodosse e per questo contrastate. Ne fu un esempio il manicheismo che trae il suo nome dal profeta iraniano Mani (216-277). Egli, accanto al principio del Bene e dello spirito, riconosceva l’esistenza del Male e della materia, in un dualismo antagonista sempre presente e mai risolvibile.
Un altro esempio di dottrina eterodossa fu il pelagianesimo che prese il nome dal monaco inglese Pelagio, attivo a Roma e a Cartagine all’inizio del V secolo. Secondo il monaco, l’uomo era naturalmente incline al bene e rifiutava il peccato originale. Pertanto, nella visione di Pelagio l’uomo non aveva bisogno di essere salvato dalla grazia divina. Comportarsi bene era sufficiente. Il concilio di Cartagine del 418 condannò il pelagianesimo che trovò un implacabile nemico in Sant’Agostino.
Come erano organizzate le comunità cristiane
Con la diffusione capillare del Cristianesimo nell’impero, le varie chiese locali si diedero un’organizzazione stabile e articolata. Alle origini del Cristianesimo, la loro era stata una struttura comunitaria, dove i ruoli tra semplici fedeli e sacerdoti non erano così netti e precisi, né esisteva una vera gerarchia autoritaria. La guida era affidata al carisma e all’influenza personale degli “apostoli” e dei “profeti” che via via emergevano in seno alla comunità.
Tuttavia, con il passare del tempo e l’articolazione sempre più grande e complessa, emersero funzioni e caratteristiche differenziate e figure diverse come i sorveglianti (vescovi), anziani (preti), incaricati della predicazione e delle celebrazioni liturgiche, affiancati da assistenti (diaconi).
Economia, assistenzialismo e proselitismo della Chiesa
La nuova organizzazione gerarchica era diretta conseguenza anche dell’aumento dei fedeli, della crescita di ricchezza e dell’intensificarsi dell’attività delle singole comunità rispetto a quelle delle origini del Cristianesimo. Questo fenomeno fu sempre più evidente dopo il riconoscimento alla Chiesa del diritto di ottenere donazioni e lasciti da parte dei fedeli come terre, monete, oggetti preziosi ed edifici. Nel loro insieme, questi beni erano considerati patrimonio dei poveri e, in quanto dono di Dio, non vendibili, esenti da imposte e non confiscabili. È in questo modo che la chiesa mise insieme la sua potenza economica.
La chiesa di Roma, in tal senso, si distinse per le sue amplissime proprietà, possedute nel V secolo in tutta l’Italia, in Gallia, Egitto, Dalmazia, Siria e Africa. Queste ricchezze andavano ad alimentare le attività dettate dallo spirito evangelico e caritatevole delle comunità. Oltre la costruzione di chiese, ospedali ed ospizi per i poveri, si assistevano materialmente i bisognosi. Una parte della ricchezza fu impiegata anche per l’istruzione e la formazione di un clero sempre più numeroso che doveva seguire l’opera di evangelizzazione.
Il ruolo del vescovo nel Cristianesimo
A capo di questa organizzazione si pose la figura del vescovo, capo della chiesa urbana e di tutte le chiese del territorio circostante, cioè della diocesi. Non era solo capo e guida spirituale di una comunità, ma ben presto espanse la sua influenza a tutta la cittadinanza. Ciò fu possibile grazie alla concessione di privilegi e poteri sempre più ampi da parte dell’imperatore. Il vescovo finì così per ricoprire anche un ruolo giudiziario e amministrativo, ruoli destinati a espandersi e rafforzarsi con la progressiva crisi dell’impero e del governo civile.
All’inizio, il vescovo era eletto dalla comunità cristiana di riferimento locale, formata da sacerdoti e fedeli. Con il passare del tempo pesarono sulla sua elezione le volontà dei ceti notabili urbani e dei vescovi delle diocesi vicine. Queste ultime erano sotto il controllo del metropolita, cioè il vescovo residente nel capoluogo della provincia. Talvolta, nell’elezione di un vescovo interveniva anche l’autorità imperiale. Stando così le cose, i vescovi eletti appartenevano sempre più spesso all’aristocrazia senatoria. L’episcopato divenne prerogativa del ceto dominante e un prolungamento del suo potere politico.
La Chiesa di Roma e il suo primato
L’unità del mondo cristiano, oltre che sulla gerarchia, si basava su uno spiccato spirito di comunione tra fedeli, comunità e vescovi. Essi traevano la loro forza dall’essere compatti nella fede di fronte ai pagani e all’autorità civile che li perseguitava.
Assieme alla singola organizzazione interna delle comunità, che via via si andava affermando, nacque e si sviluppò anche l’esigenza di avere un coordinamento territoriale fra le diverse comunità. Iniziò a emergere la tendenza al riconoscimento di un’unica autorità su tutta la Chiesa.
Il ruolo dei metropoliti
Nel corso del II e del III secolo, i cristiani si organizzarono territorialmente seguendo lo schema civile e amministrativo dell’impero Romano. Questo riteneva i metropoliti l’autorità particolare su tutti i vescovi e le comunità delle città e dei centri minori. I metropoliti dovevano confermare e consacrare l’elezione dei vescovi della propria provincia e a loro spettava la convocazione dei sinodi provinciali.
Fra il IV e il V secolo, l’ordinamento metropolitico verteva sul capoluogo della provincia. In tal modo rifletteva il modello amministrativo dell’impero e le sue vicende politiche più importanti. Infatti, Milano, Ravenna, Aquileia furono tutti sedi di metropoliti. Altre città, come Alessandria d’Egitto e Antiochia, erano destinate ad affermare la loro influenza sulle provincie circostanti. La promozione di Costantinopoli a capitale dell’impero fece sì che il vescovo di quella città divenne secondo per importanza dopo quello di Roma. I metropoliti di Costantinopoli e di Gerusalemme assunsero il titolo di patriarchi.
La Chiesa di Roma
Tra il IV e il V secolo l’esigenza di avere un centro al di sopra delle varie comunità locali che le coordinasse si fece più intensa. Tale bisogno fu più forte nella Chiesa occidentale, anche a causa del vuoto di unità e compattezza a seguito del venir meno dell’autorità imperiale. Nella Cristianità occidentale aveva assunto un ruolo di leadership la Chiesa di Roma. Tra il I e il II secolo, la Chiesa di Roma aveva abbandonato l’originaria identità greco-orientale per assumerne una più spiccatamente latina.
A rafforzare la sua posizione di autorità e preminenza pesava il suo essere sede del successore di Pietro, primo vescovo di Roma. A partire dal III secolo, a Pietro fu riconosciuto una sorta di primato rispetto agli altri apostoli. Primato che sarebbe stato da lui trasmesso ai suoi successori sulla cattedra romana, così come stabilito dal sinodo del 382, convocato da Damaso, vescovo di Roma.
La Chiesa di Roma diviene centrale
In questa occasione, si iniziò a definire la Chiesa di Roma “apostolica” e il vescovo iniziò a rivolgersi agli altri vescovi chiamandoli “figli” e non “fratelli”. Ma come leader, la Chiesa di Roma aveva ottenuto riconoscimenti anche in precedenza. Sempre Damaso nel 378 aveva ottenuto dall’imperatore Graziano il potere giurisdizionale sui vescovi dell’Occidente. Nel 381 il secondo concilio ecumenico di Costantinopoli aveva attribuito un primato d’onore di Roma anche sull’Oriente, tanto che i vescovi di Costantinopoli erano stati riconosciuti autorevoli solo sui vescovi orientali.
Alla metà del V secolo, il vescovo di Roma aveva iniziato a definirsi “papa” (padre). Invece, papa Leone I detto Magno (440-461) assunse il titolo di Pontifex Maximus. Il quarto concilio ecumenico di Calcedonia del 451 sancì ufficialmente e legittimò tutti questi primati, esprimendo la concezione di una Chiesa ormai del tutto soggetta all’autorità di Roma. In Oriente, invece, si continuò a ritenere il papa di Roma particolarmente autorevole in materia di fede, ma privo di formale autorità nel governo della Chiesa.
Autorità religiosa e autorità politica
Dopo l’affermazione del papato romano come massima autorità sulla chiesa universale cattolica, seguì la rivendicazione di autonomia, se non di superiorità, del potere religioso dei papi sul potere civile. E non a torto, dal momento che il potere politico era detenuto da un imperatore che si trovava ben lontano da Roma e che spesso era ostile. Inoltre, l’occidente era in balia dei sovrani barbari, che spesso non erano nemmeno cristiani. La rivendicazione dell’autonomia e supremazia del potere religioso fu sostenuta soprattutto da papa Gelasio I (492-498), il cui operato fu al centro di un ampio contrasto tra il papato e l’impero bizantino.
Dal momento in cui il papato si poneva spesso come unico difensore dell’Italia dalle orde dei barbari, dando sostegno anche materiale alla popolazione civile, rivendicava l’ereditarietà dell’autorità imperiale, un tempo insediata a Roma. Mentre la Chiesa d’Oriente si mostrava sempre più sotto il controllo degli imperatori di Costantinopoli, che si ritenevano insieme “cesari e papi” (cesaropapismo), la Chiesa romana, al contrario, era sempre più autonoma e prestigiosa. Questo le consentì di porsi sia come guida spirituale del mondo cristiano, sia di affermare la sua preminenza anche nei confronti dell’autorità civile.
Il monachesimo
Il Cristianesimo, oltre che nelle comunità di fedeli, preti e vescovi, si espresse anche in altre forme, come il monachesimo, destinato a svolgere un ruolo importantissimo durante il Medioevo. Il movimento monastico si diffuse inizialmente nella parte orientale dell’impero, a partire dal III secolo, per poi articolarsi anche in Occidente.
Esso rispondeva al bisogno di distaccarsi dal mondo, di vivere una solitaria pratica della vita spirituale, fatta di preghiera e mortificazione dei sensi. Lo scopo prefissato era raggiungere l’ideale evangelico di perfezione e penitenza.
Eremi e cenobi
Gli anacoreti e gli eremiti erano monaci che conducevano una vita di totale solitudine ed isolamento individuale. Si trovavano soprattutto in Egitto e sulle loro pratiche (talvolta estreme, come nel caso degli “stiliti” che vivevano sulla sommità di una colonna) fiorì una ampia letteratura di tipo edificante.
Ma il monachesimo si espresse anche in forme più mitigate, dove i monaci vivevano in comunità ristrette, dette cenobitiche. Il cenobio era dunque una comunità di religiosi dove i monaci conducevano vita in comune, dedicandosi principalmente alla preghiera e alle penitenze. Agli inizi del IV secolo il monaco cristiano Pacomio redasse quella che divenne la prima regola della vita comunitaria. I cenobi in Palestina, Siria ed Egitto si moltiplicarono. Più lenta fu la loro diffusione nell’Occidente, in particolare in Provenza, Italia e Irlanda.
L’Irlanda
Nella parte occidentale dell’impero, il monachesimo si diffuse soprattutto nella forma cenobitica. Tale fenomeno ebbe un’importanza straordinaria anche per la dimensione economica, culturale e sociale della vita quotidiana dell’epoca. Le comunità, infatti, si distinsero per l’impegno nel realizzare gli ideali cristiani concretamente nel mondo reale. Ciò significava mettere in pratica l’opera di evangelizzazione, di assistenza, lavorare manualmente, propagandare e conservare il patrimonio culturale e librario.
Una delle esperienze più significative in tal senso fu il monachesimo irlandese che si diffuse in un’isola dove le genti erano ancora pagane e che non aveva subito le invasioni barbariche. L’evangelizzazione dell’Irlanda fu avviata nella metà del V secolo grazie all’opera del monaco e vescovo della Britannia, Patrizio (390 circa- 460). Il monachesimo irlandese era caratterizzato da una forte ricerca dell’ascesi, di perfezione spirituale da realizzarsi attraverso la preghiera, la penitenza, la mortificazione del corpo. Ma non si esaurì nella dimensione interiore, perché grande e intenso fu anche l’impegno all’esterno del cenobio. I monaci diedero luogo a una vasta organizzazione religiosa sul territorio, gettando le basi di quella che sarebbe divenuta la Chiesa d’Irlanda, dove istituzioni secolari e regolari convivono strettamente.
San Benedetto da Norcia
Tra tutte le regole e le esperienze in cui si articolò il monachesimo occidentale quella più importante fu quella benedettina. Essa trae il nome dal suo autore, San Benedetto da Norcia (480 circa – 547). L’eminente monaco redasse per i monaci dei suoi cenobi di Subiaco prima, e di Montecassino (529), poi, una importante regola. La regola di San Benedetto stabiliva l’obbligo di residenza continua nel monastero (contro l’uso del girovagare) e l’obbligo di obbedienza al capo della comunità (l’abate). Inoltre, la comunità cenobitica doveva affiancare alla contemplazione, cioè il tempo dedicato alla preghiera e alla meditazione, anche il lavoro manuale come la coltivazione della terra, la copiatura dei manoscritti, l’attività d’artigianato. Si tratta della famosa formula “ora et labora”.
I monasteri benedettini divennero importantissimi centri di spiritualità religiosa e di cultura intellettuale, ma anche centri economici vitali nella società altomedievale. Queste comunità ordinate e operose divennero spesso il rifugio e il punto di riferimento per persone di ceto sociale differente. Si trattava di monaci o laici che si stabilivano nei pressi del monastero poiché finivano per gravitarvi intorno in qualche modo. I monasteri iniziarono a ricevere terre e altri beni come eredità e lasciti dai fedeli, costituendo nel tempo grossi patrimoni fondiari. Questi divennero grandi centri di organizzazione agricola e di produzione di beni alimentari e artigianali anche per il mondo esterno. I monaci furono spessissimo autori di opere di bonifica e dissodamenti per mettere a coltura grandi terreni.
Libri per approfondire
Il cristianesimo antico dalle origini al Concilio di Nicea