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Omicidi seriali nell’Inghilterra del XVII secolo

Omicidi seriali nell'Inghilterra del XVII secolo
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Nell’Inghilterra del XVII secolo, gli omicidi seriali si collocavano in un contesto sociale segnato da credenze popolari, superstizioni e trasformazioni culturali. Attraverso casi emblematici come quello di Elizabeth Ridgway, analizzeremo le dinamiche di paura collettiva, le risposte delle autorità, l’impatto di questi eventi sull’immaginario pubblico e sulla percezione della giustizia in un’epoca di grandi cambiamenti.

Omicidi seriali nell’Inghilterra del XVII secolo

Gli omicidi seriali probabilmente non erano più rari nell’Inghilterra del XVII secolo di quanto lo siano oggi. Attraverso un’analisi dettagliata degli eventi e delle risposte della società e della giustizia dell’epoca, vediamo come questi crimini hanno influenzato la percezione della sicurezza e della legalità nella storia inglese.

Gli inizi

Bablake Hospital
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Il primo caso di omicidi seriali ad attirare l’attenzione dell’opinione pubblica avvenne nel 1619 quando cinque degenti dell’ospizio per mendicanti Bablake Hospital della città di Coventry morirono improvvisamente e altri tre si ammalarono gravemente. Si scoprì che erano stati avvelenati con veleno per topi. Con ben otto vittime in un piccolo ospizio, i sospetti caddero presto su un altro ospite dell’istituto, un certo John Johnson. Lo stesso Johnson morì improvvisamente subito dopo essere stato interrogato. Il suo cadavere fu riesumato e visionato, seppellito e poi riesumato nuovamente, per rivelare che anche la sua morte era stata causata dal veleno, questa volta autosomministrato. In quanto suicida, Johnson fu seppellito lungo una anonima strada, con un paletto conficcato nel terreno che riportava la scritta “secondo la legge”. Le indagini conclusero che Johnson uccise gli altri degenti perché ambiva a diventare l’elemosiniere dell’ospedale.

Verso la fine del Seicento fu scoperto un caso ancora più raccapricciante. Nel 1671, Thomas Lancaster di Hawkshead, un villaggio vicino a Windermere, uccise sua moglie, suo padre, le tre sorelle, una zia, un cugino e un giovane servitore. Il tutto tramite la somministrazione di arsenico. Probabilmente avvelenò anche alcuni vicini di casa, per distogliere l’attenzione da sé stesso. Come osservò un magistrato locale, fu “l’atto più orribile di cui si sia mai sentito parlare in questo paese”. Il motivo era l’avidità. Come parte dell’accordo matrimoniale, il suocero di Lancaster aveva ceduto il suo patrimonio in cambio di alcuni pagamenti in contanti che doveva ai membri della famiglia. Eliminando tutti i parenti più stretti, egli ereditò l’intero patrimonio di famiglia. Lancaster fu condannato nell’aprile 1672 e impiccato in catene con l’ordine che il corpo fosse lasciato a marcire sulla forca.

I vicini, i sospetti e le mancate indagini

arsenico
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Un omicidio seriale con così tante vittime difficilmente poteva passare inosservato. Ma un assassino più astuto di Thomas Lancaster, tuttavia, poteva riuscire a farla franca. Nel XVII secolo non esistevano certificati di morte e le inchieste del medico legale erano condotte solo quando c’erano fondati motivi di sospetto. In molti casi di morte improvvisa, i vicini nutrivano dubbi, ma non avevano le prove o la volontà di agire. Pettegolezzi e sospetti potevano persistere per anni e anni. Così fu per il caso di John Lewes, un dissoluto sacerdote del Lancashire, destituito nel 1630 per reati sessuali e risse. Secondo le cronache del tempo egli “ebbe quattro giovani mogli, che morirono subito dopo averlo sposato”. I vicini sospettavano che queste morti non fossero state casuali, ma non avevano prove concrete per dimostrarlo. Senza la presenza di una polizia professionale e la certezza di protezione, non c’è da stupirsi se i vicini mormoravano tra loro, ma non andavano oltre.

Quando emergevano prove concrete di un omicidio, o di omicidi seriali, non era insolito che i vicini esprimessero i loro sospetti su morti avvenute precedentemente. Il caso di John Cupper di Bitterley, nel Shropshire, è un esempio. Durante il suo matrimonio, Cupper trattò sua moglie Hannah in modo abominevole e le causò ulteriore sofferenza quando intraprese una relazione con una “famigerata donna di cattivi costumi”, Judith Brown, che assunse come sua domestica. Quando la moglie Hannah morì improvvisamente, i vicini riferirono i loro sospetti a un magistrato locale e l’inchiesta del medico legale scoprì che la donna era morta per avvelenamento da arsenico. Al processo, Cupper e Judith Brown furono entrambi condannati: Cupper fu impiccato per omicidio, mentre Brown fu condannata al rogo.

Omicidi seriali

Thomas Sherwood ed Elizabeth Evans
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Dunque, soprattutto nel caso degli omicidi seriali, l’individuazione del responsabile dipendeva in larga misura dalle confessioni. Il caso più celebre del periodo fu quello di Thomas Sherwood ed Elizabeth Evans, conosciuti come “Country Tom” e “Canberry Bess”. Giunti a Londra, entrambi si dedicarono al crimine prima di unirsi come coppia per commettere efferati omicidi. I due misero a punto un sistema ben collaudato. Bess attirava un uomo, preferibilmente ubriaco, in un teatro o in una taverna. Poi con la promessa di concedere le sue grazie, lo portava in un luogo buio dove Tom lo avrebbe aggredito e derubato. La sera del 1 aprile 1635, Bess abbordò un certo Thomas Claxton, un gentiluomo, e lo attirò a Gray’s Inn Fields dove Tom lo uccise e lo spogliò dei suoi averi.

La mattina seguente una lattaia trovò il corpo privo di vita. Tom, però, attirò subito i sospetti perché, quella stessa mattina, commise l’errore di vendere i vestiti e l’orologio appartenuti al morto. Rinchiusi nella prigione di Newgate, i due confessarono rapidamente sia l’omicidio di Claxton sia quello di altri due uomini. Infatti, nell’autunno precedente avevano usato lo stesso trucco con un certo Michael Lowe, figlio di un ex sindaco, e in gennaio avevano ucciso un commerciante a Clerkenwell Fields. Tom Sherwood confessò anche molti altri crimini. Nella memoria popolare, i nomi di “Country Tom” e “Canberry Bess” divennero l’incarnazione del male.

Serial killer

Elizabeth Ridgway
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Elizabeth Ridgway rappresentò una tipologia di serial killer differente. La donna fu bruciata a Leicester nel 1684 per aver avvelenato il marito, appena tre settimane dopo il loro matrimonio. Dopo aver fermamente negato il crimine, il giorno fissato per la sua esecuzione Elizabeth Ridgway confessò l’omicidio del marito e ammise di aver precedentemente ucciso con lo stesso metodo sua madre, una donna di servizio e un vecchio corteggiatore. Tuttavia, la vita della Ridgway era stata apparentemente tranquilla fino al giorno del suo matrimonio. I registri parrocchiali di Ibstock, nel Leicestershire, riportano la sua nascita nel 1657, nata da John e Mary Husband. Visse tutta la sua vita nel villaggio, occupandosi della casa e di suo padre, dopo la morte della madre, avvenuta nel febbraio del 1681. Poi entrò in servizio prima di sposare Thomas Ridgway, un sarto di Ibstock, all’inizio di febbraio del 1684. Ridgway aveva una florida attività con due apprendisti e probabilmente alla donna sembrò un ottimo partito. Ma il matrimonio andò male fin da subito.

Un resoconto fornito dal reverendo John Newton annotava, con cupo umorismo, che la coppia aveva vissuto “in tutto apparente amore reciproco” per circa tre settimane dopo il matrimonio. Ma ciò non corrispondeva al vero. Avevano litigato ferocemente dopo solo una settimana, poi Elizabeth si era procurata dell’arsenico durante alcune compere ad Ashby-de-la-Zouch. Il giorno dell’omicidio, il 24 febbraio, la donna era rimasta a casa a preparare la cena della domenica, mentre il marito si era recato in chiesa. Il cibo destinato al marito fu intriso di veleno e Thomas Ridgway morì in agonia poche ore dopo. Nonostante la morte improvvisa e alcune chiacchiere tra i vicini, non fu fatto nulla e Ridgway fu sepolto il sabato successivo.

La scoperta di Elizabeth Ridgway

Elizabeth Ridgway serial killer
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Due settimane dopo, gli apprendisti di Thomas Ridgway iniziarono a sospettare che Elizabeth stesse cercando di avvelenarli e uno di loro lo disse a suo padre, che a sua volta informò Sir Wolston Dixie, un magistrato locale. Dixie ordinò che il corpo di Thomas Ridgway fosse riesumato e visionato. Il padre del defunto lo fece toccare a Elizabeth. Si trattava di un’antica credenza, secondo la quale si riteneva che il corpo avrebbe in qualche modo rivelato il colpevole. Sembra che, al tocco di Elizabeth, il cadavere abbia iniziato a sanguinare. Arrivò così il medico legale e per la donna si aprirono le porte della prigione di Leicester. Al processo, il 14 marzo, Elizabeth sostenne fermamente la sua innocenza, ma la giuria, dopo un momento di incertezza, la dichiarò colpevole.

La sentenza suscitò forti emozioni. Alcuni ritenevano che l’accusa fosse basata su deboli prove, quali la parola di un apprendista sedicenne, e che la donna fosse trattata duramente a causa del suo passato anticonformista. Ma il giudice non si fece influenzare dalle voci e inviò John Newton, vicario di St Martin’s di Leicester, ad assisterla nella speranza di estorcerle una confessione. Newton, che scrisse un resoconto dei loro incontri, rimase scioccato dal comportamento disinvolto e pieno di sfida di Elizabeth che insisteva sulla sua innocenza. A un certo punto, attribuì l’omicidio a un uomo di Hinckley che, a detta sua, quella domenica andò a casa dei Ridgway per corteggiarla, mentre suo marito si trovava in chiesa. Elizabeth accusò quell’uomo di aver somministrato il veleno.

Un caso complesso

Ma Elizabeth Ridgway fu incastrata da altri sospetti, soprattutto quelli relativi alla morte, avvenuta l’estate precedente, di un vecchio corteggiatore, John King, servitore di un certo signor Paget. King era morto improvvisamente e in agonia a casa di Paget, dopo aver bevuto una birra, appena tornato dal lavoro nei campi. Il fratello e la sorella di Elizabeth le chiesero conto di questa morte quando andarono a trovarla in prigione dopo il processo. La donna lasciò intendere che il suo futuro marito Thomas Ridgway, quel giorno, stava lavorando nei medesimi campi e che, accecato dalla gelosia, avesse avvelenato King con il suo tacito consenso. Ma quando Newton sollevò la questione, lei negò ostinatamente.

Solo il giorno prima della sua esecuzione, Elizabeth Ridgway dichiarò il desiderio di confessare. Ma anche in quella occasione, la donna si mostrò ostinata. Quando suo padre e una gentildonna la supplicarono di parlare, rise loro in faccia e raccontò che la storia dell’uomo di Hinckley era una pura invenzione. Solo poche ore prima della sua morte, confessò finalmente di aver ucciso suo marito. Newton attribuì questo cambiamento nella condotta della donna al suo sermone del giorno prima. Egli subito pubblicò un resoconto della storia, evidenziando anche la presenza di sospetti circa la morte di sua madre, della donna di servizio e di due bambini piccoli. Il rogo fu rinviato di diverse ore nella speranza di ottenere ulteriori confessioni.

La verità sfumata

Esiste un resoconto dell’epoca in cui si affermò che, prima della sua morte, Elizabeth confessò effettivamente gli omicidi di sua madre, della donna di servizio nella casa in cui avevano lavorato assieme e del suo corteggiatore John King. L’autore di questo racconto, sebbene anonimo, dimostrò una profonda conoscenza della comunità in cui avvennero i fatti e fornì i nomi di coloro che avrebbero potute testimoniare.

Non sapremo mai tutta la verità sulla storia di Elizabeth Ridgway. Quello che sappiamo è che la donna andò al rogo con aria di sfida, rifiutandosi di adempiere al tradizionale ruolo di penitente e manifestando chiaramente il suo disprezzo per gli ecclesiastici che le offrivano sostegno e conforto.

Mostri o pazzi: il sottile limite

psicologia criminale
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Crimini così terribili suscitano un forte e profondo turbamento. Gli autori degli omicidi seriali erano (e sono) mostri o pazzi? Persone normali possono, a un certo punto della loro vita, scendere a tali livelli di depravazione? I resoconti pubblicati, nonostante i limiti delle fonti, ci permettono di scoprire come, anche nell’Inghilterra del XVII secolo, si cercava di rispondere a queste domande. Alcuni crimini, sebbene scioccanti, non erano difficili da comprendere. Robert Greenway di Beaconsfield soffriva chiaramente di una qualche malattia mentale quando massacrò sua moglie e quattro figli nel 1708. Quella mattina, improvvisamente, l’uomo aveva iniziato a cantare e ballare e aveva cercato di strangolare sua sorella quando lei rifiutò di unirsi a lui. Temendo che fosse impazzito, la donna corse dai vicini per chiedere aiuto.

Ma quando tornò, scoprì con orrore che egli aveva già massacrato tutta la sua famiglia con un attrezzo da lavoro. Altri casi sconcertarono gli inglesi del XVII secolo, anche per l’impossibilità di comprendere i motivi degli omicidi seriali. Nel 1677 un’orfana quattordicenne londinese avvelenò le due donne anziane che si prendevano cura di lei. Interrogata, la ragazzina ammise di aver avvelenato in precedenza sua madre e una serva, crimini che non erano stati scoperti per oltre un anno e mezzo. La sua condotta criminale non aveva alcun motivo evidente, tranne il risentimento per un banale disaccordo domestico.

Le spiegazioni dei contemporanei

Il XVII secolo era un’epoca ancora dominata dalle superstizioni e dalle credenze e, nel caso degli omicidi seriali, la pazzia e la malattia mentale non erano troppo considerate. John Newton, che aveva parlato con Elizabeth Ridgway quasi ogni giorno, accennò solo di sfuggita alla possibilità che la donna fosse pazza. Nonostante ciò, entrambi i resoconti dell’epoca ritenevano significativo il fatto che ella avesse acquistato del veleno tre anni prima con l’intento di suicidarsi. Secondo un resoconto, Elizabeth avrebbe sofferto di impulsi autodistruttivi per otto anni, un elemento che oggi gli psicologi criminali considererebbero rilevante in un caso simile. Le motivazioni che lei stessa ha indicato per l’omicidio del marito rivelano aspetti psichiatrici significativi: la frustrazione per non riuscire ad amarlo e il rancore scaturito dalla scoperta che l’uomo era molto meno benestante di quanto avesse inizialmente creduto.

La principale preoccupazione di Newton era instillare precetti morali nei lettori, sottolineando in particolare l’importanza di educare i bambini fin da piccoli a sani principi morali. La morte del corteggiatore rivale indicava la pericolosa follia del flirtare. «Se i sentimenti religiosi formatisi in gioventù vengono domati o soppressi, non c’è da stupirsi se le più nere malvagità si attirano a vicenda». Il messaggio di Newton era che anche la condotta di un serial killer e i suoi omicidi seriali potevano essere spiegati come il risultato di un progressivo allontanamento dalle norme rispettabili. Non era necessario considerare Ridgway come un mostro o una persona folle; il peccato originale, aggravato da un disciplinamento sociale inadeguato, costituiva una spiegazione sufficiente.

Omicidi seriali come moniti per i contemporanei

Il resoconto pubblicato su Country Tom e Canterbury Bess conteneva un messaggio simile. Henry Goodcole, il cappellano di Newgate che parlò a lungo con i due serial killer, non li presentava come mostri o psicopatici. Anche egli suggerì che la spirale discendente delle loro vite fosse un monito istruttivo per ogni lettore. Egli attribuiva parte della colpa ai parenti di Bess a Londra. Le avevano trovato un posto per lavorare a servizio, ma poi l’avevano ripudiata quando la donna aveva iniziato a frequentare cattive compagnie. Senza denaro, vestiti o lavoro, “tutti i mezzi di sussistenza in mancanza“, era prevedibile che sarebbe scivolata nella prostituzione e nel crimine. Gli omicidi seriali rappresentavo una possibilità remota, ma anche se non avesse mai incontrato Tom, la spirale discendente della sua vita avrebbe probabilmente portato Bess sulla forca, se non fosse morta prima a causa di una malattia venerea.

Country Tom era un criminale più esperto, ma anche in questo caso il cappellano Goodcole si preoccupò di dimostrare che l’uomo conservava ancora un residuo di umanità e qualche barlume di coscienza. Non era necessario demonizzarlo. Goodcole riferì che Tom aveva insistito con il coroner per vedere il corpo del commerciante che aveva ucciso, e che la visione lo colpì talmente da causargli una violenta emorragia nasale. Entrambi gli assassini morirono pentiti, rimpiangendo di essersi incontrati. Tom si dichiarò pronto ad affrontare la pena capitale, affermando che “per tutto il tempo in cui visse, la sua esistenza fu una specie di inferno”. Sul patibolo, chiese che venissero eseguite le “Lamentazioni di un peccatore”. Secondo Goodcole, gli autori di omicidi seriali erano peccatori, non mostri.

La progressione di reati per spiegare la mente criminale

Gli scrittori laici che descrissero altri casi di omicidi seriali nell’Inghilterra del XVII secolo evidenziarono la progressione che portava dai peccati minori, come l’ubriachezza, il gioco d’azzardo e il furto, fino ai crimini più gravi. John Cupper, originario dello Shropshire, era stato uno scolaro svogliato e un cattivo servitore, prima di diventare un marito adultero e, infine, un omicida. Thomas Hellier, un barbiere-chirurgo del Dorset, fin da giovane aveva mostrato un “carattere facilmente incline a qualsiasi vizio”. Lasciato a se stesso, la sua vita precipitò: dissipò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto, imbrogliando, derubando suo padre e abbandonando sua moglie. Dopo essersi ridotto a rubare ai mendicanti, si imbarcò come servitore a contratto in Virginia. Quando la vita nelle piantagioni vicino a Charleston gli divenne insopportabile, nel 1678 irruppe nella camera da letto del suo datore di lavoro, brandì un’ascia e lo uccise, insieme alla sua amante e alla serva.

La vita di Hellier sembra un romanzo d’avventura, ma in realtà anche gli inglesi del XVII secolo erano consapevoli che ciò accadeva quando si sceglieva di vivere in modo dissoluto. La progressione di piccoli crimini spesso conduce a crimini più gravi, come gli omicidi seriali. Sul patibolo, Hellier venne presentato come un libertino, e la sua vita non poteva che proseguire in quel modo. Questo doveva servire da lezione per gli altri. I contemporanei del XVII secolo ritenevano che, senza la guida dei genitori e l’autodisciplina, chiunque avrebbe potuto intraprendere la strada verso la perdizione. Se avessero conosciuto casi come quello di Ted Bundy o Donato Bilancia, gli inglesi del XVII secolo li avrebbero osservati con lo stesso stupore e orrore che proviamo noi oggi, ma nel cercare di spiegare le cause degli omicidi seriali, non sarebbero andati oltre la questione della natura umana contaminata.

Libri per approfondire

Serial killer. Storie di ossessione omicida di Carlo Lucarelli e Massimo Picozzi

Omicidi seriali immagini