L’arrivo di Bartolomeo Diaz al Capo di Buona Speranza, alla fine del XV secolo, segnò l’apice della storia del colonialismo portoghese in Africa, dando inizio al fatale impatto europeo sul contenente africano.
Tentativi per uscire da una povertà cronica
Nel 1488 Bartolomeo Diaz, un esperto navigatore portoghese, raggiunse il Capo di Buona Speranza, il punto più estremo del Sud Africa. Diaz fu il primo europeo a raggiungere e doppiare il Capo di Buona Speranza, dando prova dell’esistenza del collegamento tra l’Oceano Atlantico e l’Oceano Indiano e aprendo una nuova rotta per le Indie. Questo fatto rappresentò l’ultima tappa dell’esplorazione portoghese della costa atlantica e delle sue isole, ma anche l’inizio di cinque secoli di storia del colonialismo portoghese in Africa e delle tese relazioni tra Europa e continente africano.
Ma come riuscì il Portogallo, un Paese piccolo, povero e ai margini dell’Europa a diventare il pioniere della colonizzazione atlantica? Ecco la storia della scoperta e della dominazione portoghese sull’Africa e le relative conseguenze fatali.
Storia del colonialismo portoghese in Africa
La dominazione portoghese dell’Atlantico orientale si svolse in sei fasi, ciascuna delle quali aprì la strada a nuovi domini coloniali. L’impresa di Bartolomeo Diaz avvenne dopo due secoli di tentativi nell’ambito di un espansionismo intrapreso dal Portogallo per uscire dalla sua povertà cronica. Il Paese riuscì a imporsi come potenza internazionale grazie alla favorevole posizione del porto di Lisbona che offriva ai navigatori un comodo rifugio sulla costa inospitale dell’Europa sudorientale. Infatti, proprio da Lisbona partì la storia del colonialismo portoghese in Africa e nel resto del mondo.
Grazie ai Fenici Lisbona divenne un fiorente porto. Infatti, la sua felice posizione alla foce del fiume Tago rendeva l’insediamento un luogo ideale per rifornire di prodotti le navi in viaggio verso la Gran Bretagna. Il porto fu utilizzato anche durante la dominazione romana e araba. Nel XIII secolo si affermò la potenza marittima di Genova che riuscì a raggiungere l’Atlantico dal Mediterraneo. I grandi centri commerciali dell’Italia settentrionale e della Germania meridionale, fino ad allora collegati via terra attraverso i grandi mercati di Lione e Norimberga, furono così raggiunti dai genovesi tramite una via marittima più sicura e veloce. Trovandosi su questa rotta, Lisbona divenne nuovamente un porto fiorente. I portoghesi affinarono le loro tecniche di costruzione navale imparando dai Paesi Bassi. La monarchia portoghese arruolò esperti ammiragli genovesi, anche se il più famoso dei quali, Cristoforo Colombo, preferì cercare la fama con il porto rivale di Siviglia, in Castiglia.
Il porto di Lisbona
Il ruolo di Lisbona come porta marittima tra il nord e il sud dell’Europa causò la crescita di una classe media con competenze mercantili e bancarie. Questa classe media si rese protagonista dell’espansionismo prima e della storia del colonialismo portoghese in Africa poi, cercando all’estero una nuova ricchezza per il Paese. L’infante del Portogallo, il famoso Enrico il Navigatore, e suo fratello Pedro furono sostenitori e protettori di tale progetto, che trovò anche il sostegno della benestante comunità ebraica della città. Furono proprio gli intellettuali ebrei, non limitati dalle concezioni cristiane sul mondo così come rappresentate nelle Scritture, a disegnare mappe e raccogliere informazioni in modo scientifico sulle prospettive economiche all’estero.
Incessanti crisi economiche spinsero il Portogallo sulla strada dell’esplorazione e dell’espansionismo. Per tutto il Medioevo, Lisbona rimase sostanzialmente una città povera. La penetrazione verso l’entroterra alla ricerca di terreni agricoli era ostacolata dalla natura paludosa e dalla scarsa navigabilità del fiume Tago. I commerci su lunga distanza erano costosi e il rifornimento di grano, necessario a sfamare la popolazione, dipendeva da spedizionieri spagnoli e britannici. Ma, nel XIV secolo, si cercò di trovare una nuova soluzione al deficit cerealicolo del Portogallo con le imprese coloniali nell’Atlantico.
Le prime colonie
Al largo della costa del Portogallo si trovavano le isole disabitate delle Azzorre e di Madeira. Con lo sviluppo dei trasporti marittimi, queste terre divennero più accessibili rispetto all’entroterra. Si tentò quindi di colonizzarle per farvi crescere il grano. Il concetto di colonizzazione fu appreso dai veneziani che avevano stabilito colonie attorno ai loro centri commerciali nel Vicino Oriente. L’offerta di manodopera era costituita sia da migranti europei a basso costo che fuggivano dalla povertà, sia da schiavi razziati lungo la costa barbaresca. Il capitale necessario fu messo assieme servendosi delle banche genovesi. Anche la nobiltà proprietaria terriera concorse al progetto coloniale che ottenne la protezione del principe Enrico.
In seguito, il sistema delle colonie cerealicole si diffuse fino alla sponda opposta dell’Oceano, diventando una fonte di grano, non solo per il Portogallo, ma anche per quasi tutta l’Europa. Quella basata sul grano fu la prima fase della storia del colonialismo portoghese e riuscì a raggiungere l’obiettivo iniziale di fornire pane a Lisbona. Ma divenne anche un modello di sistema coloniale per il resto dell’Europa.
Seconda fase
La seconda fase dell’espansionismo e della storia del colonialismo portoghese comportò uno sviluppo più articolato degli investimenti all’estero. Il grano era un’impresa agricola a rendimento relativamente basso. Si pensò allora di ottenere un rendimento molto più elevato con il vino e gli alcolici. Questi prodotti potevano essere meglio conservati e potevano essere venduti quando il prezzo era più vantaggioso, mentre il grano solo quando il raccolto era maturo. La seconda fase dell’espansionismo portoghese tentò quindi di dar vita a un’industria vinicola all’estero, utilizzando le isole coloniali per la coltivazione della vite, in particolare le isole Canarie.
A differenza delle Azzorre, le Canarie erano già abitate e fu necessario conquistarle prima di poter creare le piantagioni. Una volta occupate, gli isolani sopravvissuti furono ridotti in schiavitù e ad essi si aggiunsero i migranti provenienti dalle zone povere del Portogallo. Ma le isole Canarie divennero importanti anche perché rappresentarono la base per la conquista e la colonizzazione dell’America ispanica. Da queste isole, Colombo salpò nel 1492 e, successivamente, una parte significativa dei migranti che partirono alla volta delle colonie ispano-americane erano isolani delle Canarie, spesso di origine portoghese. Dunque, nello sviluppo dell’ideologia economica, politica e sociale dell’imperialismo, le Canarie ebbero un ruolo fondamentale.
La terza fase della storia del colonialismo portoghese
La terza fase della storia del colonialismo portoghese vide come protagoniste un altro gruppo di isole dell’Oceano Atlantico, le isole di Capo Verde, note da tempo per il loro artigianato tessile. Il Portogallo era gravemente carente di prodotti tessili quasi quanto lo era di grano. E uno dei motivi che aveva spinto allo sviluppo delle esportazioni di vino era il pagamento della lana che proveniva dall’Inghilterra. Il cotone era acquistato in quantità significative dai musulmani del Nord Africa e, dopo aver doppiato il Capo di Buona Speranza, dai grandi centri tessili dell’India. Ma le isole di Capo Verde offrirono l’opportunità di creare un’industria tessile coloniale, quindi propria.
Sulle isole furono create piantagioni di cotone e gli impianti per la filatura e la tintura. La manodopera proveniva dall’Africa occidentale continentale, mentre gli artigiani specializzati furono portati dalla terraferma per introdurre le necessarie tecniche di tessitura. I tessuti prodotti nelle isole erano venduti sulla terraferma in cambio di schiavi che ampliavano ulteriormente le piantagioni. Il cotone coltivato dagli schiavi divenne, nel corso dei secoli, una delle basi fondamentali delle relazioni europee con il resto del mondo. Questo sistema economico si diffuse in Brasile, che riforniva il Portogallo, nelle colonie dei Caraibi e infine alla grande Black Belt che comprendeva gli Stati americani del Sud, in particolare l’Alabama. Inoltre, questa industria che si sviluppò nell’ambito della storia del colonialismo portoghese giocò un ruolo diretto nello sviluppo della rivoluzione industriale nella Gran Bretagna del XVIII secolo.
Quarta fase
La quarta fase del colonialismo del Portogallo coinvolse un quarto gruppo di isole e un altro tipo di economia delle piantagioni coloniali. L’isola di São Tomé, al largo del delta del Niger, disponeva di territori eccezionalmente fertili e piogge abbondanti. Qui, i portoghesi sperimentarono l’introduzione della canna da zucchero, la cui produzione richiedeva un grado di organizzazione molto più elevato rispetto alle colture fino ad allora introdotte nelle nuove colonie atlantiche. La canna da zucchero doveva essere coltivata su scala sufficientemente ampia da giustificare l’investimento e richiedeva infrastrutture come mulini e impianti di bollitura, oltre a una manodopera che potesse lavorare intensamente durante la stagione del raccolto. Lo zucchero sembrava essere ideale per un’economia schiavistica e i vicini regni del Benin e del Congo fornirono la forza lavoro. L’industria prosperò così tanto che l’isola divenne presto troppo piccola e le piantagioni di zucchero si diffusero in altre colonie portoghesi, in particolare nel nord-est del Brasile.
Il successo di São Tomé spinse le altre potenze europee sulla strada del colonialismo. Gli olandesi arrivarono addirittura a conquistare l’isola e anche parte del Brasile. Gli inglesi fondarono le proprie colonie per realizzare piantagioni di canna da zucchero alle Barbados e nei Caraibi nel XVII secolo, per poi concentrarsi su quelle dell’India nel XIX secolo. La colonia francese di Haiti, basata esclusivamente sull’economia dello zucchero, divenne la più ricca, ma anche la prima a ribellarsi con successo contro il modello razziale di schiavitù che il Portogallo aveva sviluppato, arrivando a creare uno stato indipendente.
La quinta fase del colonialismo portoghese
La quinta fase della storia del colonialismo portoghese riguardò l’estrazione mineraria, in particolare quella dell’oro nell’Africa occidentale. Le informazioni sulla fornitura transahariana di oro africano erano ampiamente conosciute negli ambienti islamici del Mediterraneo e certamente raggiunsero i mercanti di Lisbona. Nel 1471 questi mercanti avevano scoperto una via secondaria per arrivare alle miniere attraverso la Gold Coast nell’Africa occidentale. Per acquistare l’oro, tuttavia, i portoghesi dovevano offrire prezzi e merci competitivi con quelli delle carovane di cammelli del Sahara. Scoprirono, con loro sorpresa, che la manodopera nelle miniere scarseggiava e che gli schiavi provenienti dalle piantagioni coloniali potevano essere venduti a buon prezzo. Così le isole coloniali si trasformarono in centri per la vendita di schiavi da impiegare come minatori. L’attività fiorì e, nel giro di una generazione, il Portogallo fu in grado di acquistare oltre diecimila once d’oro all’anno.
La ricerca dell’oro divenne un elemento fisso dell’ambizione coloniale. Il successo del Portogallo nell’Africa occidentale risultò una forza trainante e un modello per le potenze europee colonialiste. Tutte le regioni del mondo ricche di oro furono esplorate e saccheggiate. Inizialmente, l’Africa cercò di proteggere la sua ricchezza mineraria con eserciti efficienti. L’America era allora ancora debole e disorganizzata: gli abitanti dei Caraibi morirono in massa nelle miniere spagnole, mentre gli imperi del Messico e del Perù furono rovesciati e depredati. Solo nel XIX secolo l’Africa soccombette alla conquista dell’oro da parte degli europei. La brama di oro causò la Guerra anglo-boera del 1899 in cui la Gran Bretagna, ormai la più forte delle nazioni colonizzatrici, conquistò il Sudafrica.
Sesta e ultima fase dell’espansione portoghese
La sesta e ultima fase dell’espansione portoghese si sviluppò nell’Africa centrale. In Angola i portoghesi fecero il loro unico tentativo per creare una colonia sulla terraferma, popolata esclusivamente da abitanti autoctoni. Per riuscirvi utilizzarono la religione, promettendo di introdurre divinità e santi più potenti per controllare il soprannaturale. In questo modo, i portoghesi furono in grado di costruire alleanze politiche in gradi di proteggere i loro interessi commerciali e di consentire uno sviluppo limitato di altri insediamenti stranieri. La prima colonia continentale dell’Africa si basò sul commercio degli schiavi, ma in meno di un secolo questo commercio fallì a causa delle ribellioni. I portoghesi adottarono le tattiche militari spagnole e inviarono squadre di conquistadores per rendere più salde le loro postazioni commerciali. L’impresa militare fu giustificata dalla missione dei Gesuiti, partiti al seguito dei portoghesi, che lodarono la conversione armata e stabilirono piantagioni con schiavi per finanziare le loro chiese e monasteri.
Gesuiti e soldati passarono poi in Brasile e iniziarono l’esplorazione e la conquista della parte orientale del continente sudamericano. Tra i coloni figuravano circa tre milioni di schiavi portati dall’Africa contro la propria volontà. Tutti i precedenti modelli coloniali che il Portogallo aveva creato nel XIV e XV secolo tramite la coltivazione di cereali, la viticoltura, la raccolta del cotone, le piantagioni di zucchero e l’estrazione dell’oro furono introdotti in Brasile. Lo zucchero nel XVII secolo e l’oro nel XVIII si rivelarono i più redditizi, assieme alla nuova produzione di tabacco.
Il Capo di Buona Speranza
Nella storia del colonialismo portoghese , particolare importanza ebbe la grande spedizione al Capo di Buona Speranza, guidata dal capitano Bartolomeo Diaz, per i cui servizi il re del Portogallo pagò una rendita di seimila reali. Nell’agosto del 1487 Diaz partì con due piccole caravelle da esplorazione abbastanza leggere e una nave più grande che trasportava provviste e merci da scambiare sul posto. L’obiettivo era giungere sulla costa deserta della Namibia, oltre le acque angolane esplorate da Diego Cão. Dopo il fallimento di alcuni tentativi per stabilire rapporti commerciali, Diaz si spinse oltre, verso la costa più verdeggiante del sud. Osservando la linea di costa che stava seguendo, Bartolomeo Diaz si rese conto di aver girato verso est. A circa cinquecento miglia a est del Capo di Buona Speranza, Diaz si convinse a tornare indietro. Non aveva scoperto nessuna nuova ricchezza, nessuna terra fertile, nemmeno una fonte di schiavi con cui ricompensare il re del Portogallo. Peggio ancora, non aveva trovato la via marittima verso l’Arabia e l’India.
Durante il viaggio di ritorno, il 6 giugno 1488 Bartolomeo Diaz si fermò e piantò la croce di pietra che aveva con sé, segno di affermazione territoriale dei diritti portoghesi, sul Capo di Buona Speranza. Questo divenne il punto di riferimento più famoso del suo viaggio e il superamento dell’estremo promontorio meridionale fece entrare Diaz nella storia del colonialismo portoghese in Africa e non solo. Diaz non si fermò a Table Bay, nella futura città Cape Town, ma continuò il suo viaggio di ritorno, giungendo a Lisbona nel dicembre 1488 dopo aver percorso 6.000 leghe in sedici mesi.
Le conseguenze della scoperta del Capo di Buona Speranza
Le ripercussioni a livello internazionale del viaggio del Diaz furono numerose. Nel 1491 un’importante spedizione fu inviata nel regno del Kongo, in Angola, per stringere un’alleanza politica e commerciale più promettente rispetto a quella con le comunità sparse della costa del Sud Africa. Nel 1492 Cristoforo Colombo, dotato di dati errati sulla circonferenza terrestre, salpò per conto della Spagna alla ricerca di una rotta occidentale verso la Cina, poiché Diaz non era riuscito a trovarne una attorno alla costa africana. Solo nel 1497, nove anni dopo il viaggio di Diaz e cinque anni dopo che Colombo iniziò ad esplorare i Caraibi, il re portoghese, Manuele I riuscì a mettere insieme uomini e navi per tentare un’altra avventura mercantile nell’estremo sud. La spedizione di Vasco da Gama portò a termine l’opera iniziata da Bartolomeo Diaz e aprì la via marittima verso l’Asia.
Inizialmente, la scoperta del Capo di Buona Speranza non suscitò grande interesse. Il Sudafrica aveva poche attrattive per gli uomini in cerca di commercio, minerali, schiavi, terre libere e qualsiasi altro tipo di opportunità imprenditoriale. Pochi portoghesi visitarono il Capo e solo per aggirarlo e cercare le rotte marittime verso la ricca Asia. Tuttavia, il Capo divenne gradualmente la più potente di tutte le colonie straniere dell’Africa. Cinque secoli dopo sarà anche quella che attirerà il maggior numero di migranti portoghesi.
La fine della storia del colonialismo portoghese e lo sviluppo del Sud Africa
Nel 1588, un secolo dopo la visita di Diaz in Sud Africa, il Paese era cambiato poco. I portoghesi non fondarono insediamenti nella zona, ma al loro posto lo fece la Compagnia olandese delle Indie orientali, ponendo fine alla storia del colonialismo portoghese in questa zona dell’Africa. Il 6 aprile 1652 l’esploratore Jan van Riebeeck fondò il primo scalo a Table Bay che fu il primo nucleo della attuale Città del Capo. Dalla baia, i coloni olandesi penetrarono nell’entroterra e riuscirono a stabilire rapporti pacifici con le popolazioni locali. In tal modo, la colonia crebbe rapidamente.
In quell’epoca avvennero i primi segnali della rivoluzione agricola che avrebbe portato il mais americano in Sud Africa fino a diventarne la coltura di base. Tuttavia, fu solo nel XVIII secolo che la nuova agricoltura e le condizioni climatiche favorevoli causarono un forte aumento demografico della popolazione sudafricana. Verso la metà del Seicento si verificarono i primi segnali di ribellione che miravano all’indipendenza del Sud Africa.
Il Settecento
Il Capo aveva cominciato ad accogliere profughi calvinisti provenienti dalla persecuzione europea. Colonie basate sulla coltivazione di grano e vite furono fondate nelle fertili pianure di Swellendam e Stellenbosch. I coloni si mostravano restii al controllo imperiale imposto loro dal governo metropolitano della Compagnia olandese delle Indie occidentali. La schiavitù era accettata come mezzo normale per acquisire manodopera. Le donne bianche erano rare tra i coloni e le due popolazioni iniziarono a mescolarsi.
Alla fine del Settecento, il Capo era diventata una società di frontiera fortemente legata al resto del Sud Africa. La popolazione indigena del Capo Occidentale era stata integrata nella società coloniale come casta sottomessa oppure cacciata verso le frontiere settentrionali. La cooperazione e il conflitto tra bianchi e neri si alternavano a seconda delle esigenze. Si formò una vasta popolazione creola di varia composizione razziale che parlava un creolo olandese, più tardi conosciuto come afrikaans.
L’imperialismo britannico
Alla fine del XVIII secolo, il declino dei Paesi Bassi spinse gli inglesi a occupare la colonia. Dopo alterne vicende, la resistenza olandese e boera fu sconfitta dagli inglesi nella battaglia di Blaauwberg del 1806. La colonia del Capo fu ceduta definitivamente agli inglesi tramite il trattato anglo-olandese del 13 agosto 1814. La zona fu ribattezzata Cape Colony. L’occupazione inglese causò il malcontento dei coloni boeri, soprattutto perché nel 1808 si sancì l’abolizione della schiavitù e nel 1833 si proclamò la conseguente emancipazione degli schiavi.
Il Sudafrica nell’Otto e Novecento
Alla fine dell’Ottocento, il Sudafrica si trovava sull’orlo di una rivoluzione sociale ed economica. Erano stati trovati diamanti, oro e carbone e le società agrarie, sia bianche che nere, cominciarono a mobilitarsi per lo sfruttamento industriale delle loro ricchezze minerarie per conto degli investitori europei. Lo sconvolgimento fu immenso e portò al divario razziale tra bianchi e neri e al divario culturale tra anglofoni e olandesi. La vecchia popolazione del Capo, con il suo patrimonio misto, bianco e nero, inglese e olandese, non fu in grado di mediare tra le parti coinvolte, in quanto le esigenze del profitto industriale superarono i benefici politici della riconciliazione. Le conseguenze furono la grande Guerra boera e l’ideologia della segregazione razziale, la politica dell’apartheid.
Nel corso del Novecento, l’antica popolazione nera fu completamente sopraffatta dal potere bianco. Le persone che non trovavano impiego nella produzione industriale o nell’agricoltura capitalista furono deportate negli accampamenti situati ai margini più remoti e aridi del Paese. Il resto della popolazione fu segregato in ghetti neri urbanizzati, con diritti economici limitati e senza voce in politica. Nel frattempo, la popolazione bianca era cresciuta numericamente e per benessere economico, soprattutto nelle fertili terre centrali. In questo periodo si verificò l’ultimo arrivo di seicentomila immigrati portoghesi. Come i loro predecessori, i migranti atlantici del XIV e XV secolo, anche essi erano alla ricerca di un’alternativa alla miseria nella nazione colonizzatrice più povera ma allo stesso tempo più innovativa d’Europa, il Portogallo.
Libri per approfondire
Schiavi e trafficanti attraverso l’Atlantico. I negrieri portoghesi dal XV al XIX secolo