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All’origine del Medioevo: la fine dell’Impero Romano

fine dell'Impero Romano
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Al tempo della sua massima espansione, nel II secolo d.C., l’Impero Romano comprendeva tutta l’area del Mediterraneo. Si stima che la popolazione totale fosse di 80 milioni. Ma da questa grandezza si giunse alla disgregazione. Vediamo quali furono le tappe che portarono alla fine dell’Impero Romano e all’origine del Medioevo.

L’Impero Romano sul mondo mediterraneo

impero romano
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Quando i romani conquistarono il bacino del Mediterraneo, trovarono un territorio già unito da diversi fattori economici e culturali. Tra i paesi mediterranei esistevano già da tempo fitti rapporti commerciali, le comunicazioni erano facilitate dalla navigazione possibile tutto l’anno e i fiumi consentivano la penetrazione di uomini e merci fin nell’entroterra. Il mondo mediterraneo si basava su un’economia agricola mentre l’organizzazione politica faceva capo a numerosi centri urbani.

Le città costituivano una rete ben collegata dove fiorivano le attività commerciali e manifatturiere. In città risiedevano i proprietari fondiari che muovevano le fila dell’economia agricola. Tutti questi elementi, che costituivano il cardine dell’unità del mondo mediterraneo, furono rafforzati dalla dominazione romana.

Lo splendore della dominazione romana

Il dominio dei Romani si allargò e si rafforzò tra l’inizio del II secolo a.C. e l’inizio del I secolo d.C., andando a comprendere anche un vasto entroterra rappresentato dalla Spagna, Gallia, i territori danubiani e balcanici, la Siria, l’Armenia, l’Egitto e l’Africa settentrionale.

Ciò favorì la nascita di un sistema di comunicazioni terrestri che consentì il regolare approvvigionamento di ogni angolo dell’impero. Accanto al sistema di comunicazioni, si sviluppò un sistema monetario unificato e un sistema di leggi e consuetudini pressoché uguali.

Impero romano: l’organizzazione politica

roma apice del potere
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Al vertice del governo vi era l’imperatore. Dopo un periodo di forti contrasti con il Senato, fra il I e il II secolo, l’imperatore aveva assunto le principali redini del comando. Da lui dipendevano i pretoriani (la sua guardia armata) e il prefetto del pretorio (il capo dei pretoriani). Il Senato, dopo gli iniziali contrasti per il controllo del potere, aveva perduto gran parte del potere politico. Tuttavia, i suoi membri formavano ancora la classe sociale più prestigiosa e influente.

Al vertice della società romana, oltre i senatori, vi era l’ordine equestre, cioè i cavalieri, un ceto ricco ma di origine meno elevata, tra cui venivano eletti i funzionari imperiali. I senatori e i cavalieri erano anche coloro che possedevano le grandi proprietà fondiarie, enormi latifondi che servivano anche a inquadrare le masse rurali. Di queste ultime facevano parte i coloni (contadini liberi) che avevano in concessione appezzamenti di terreno e i servi casati, schiavi che avevano un’abitazione e terreni da coltivare. Attorno ai latifondi si svilupparono i vici (villaggi) o piccoli centri urbani.

L’imperatore

Tornando alla figura dell’imperatore, egli aveva nelle sue mani il potere politico, quello giudiziario (al posto del pretore che divenne via via una carica onorifica) e quello religioso (l’imperatore rivestì la carica di pontefice massimo fino al 375). Egli amministrava le province, sceglieva i funzionari dal ceto equestre. Tramite il sistema della commendatio (raccomandazione) di fatto imponeva i suoi prescelti in tutti gli apparati del governo che, in tal modo, si svuotarono del loro antico potere.

Il pretore divenne una carica onorifica e lo stesso avvenne per i tribuni della plebe (in età repubblicana, i tribuni della plebe erano eletti dal popolo per affiancare i consoli) e gli edili (magistrati con varie funzioni, tra cui l’essere rappresentanti dell’intera cittadinanza). Il ruolo dei questori fu ridotto alla stregua di quella dei magistrati delle province, mentre i censori furono aboliti da Domiziano. I consoli furono eletti fino al 534, ma facendone avvicendare molti nel corso di un anno.

L’amministrazione

Tra l’apparato di governo che faceva capo a Roma e le autonomie riconosciute ai territori provinciali (civitates) vi era un sostanziale equilibrio. Le civitates erano amministrate da una città a cui facevano capo. Le città, i magistrati e i consigli municipali (i cui membri erano eletti tra i maggiori proprietari terrieri) avevano compiti amministrativi, giudiziari, di riscossione delle tasse, di gestione delle strade e degli uffici pubblici.

Questa attività di governo era svolta con la collaborazione dei governatori delle province e dei funzionari imperiali. Le città di confine assunsero anche una funzione militare, soprattutto dopo la decadenza del limes. Nelle città romane a prevalere era il ceto dei proprietari fondiari che rappresentavano il tratto d’unione tra città e territorio circostante.

Genesi della fine dell’Impero Romano: la crisi economica dell’area mediterranea

 

Con la deposizione dell’ultimo imperatore Romolo Augustolo nel 476 terminò la dominazione romana sul Mediterraneo e l’Europa. Tuttavia, le cause che portarono alla disgregazione e alla fine dell’Impero avevano avuto origine tempo prima. Nel II secolo d.C. ci furono i primi segnali di una profonda crisi dell’economia mediterranea. La crisi agricola metteva in pericolo le fondamenta stesse dell’impero dal momento che rappresentava la sua base economica. Dal II secolo aumentarono le terre abbandonate: i piccoli e medi proprietari terrieri non riuscivano a trarne sostentamento perché troppo impoverite.

La grande proprietà era in difficoltà a causa dell’impoverimento di terreni troppo sfruttati del ridotto numero di schiavi. Terre che un tempo erano fertili divennero incolte o destinate al pascolo con la conseguente comparsa di terre paludose e insane. Da ciò derivò una scarsa disponibilità alimentare e una diminuzione della ricchezza. I contadini emigrarono nelle città, andando a ingrossare le fila di coloro che beneficiavano dell’assistenza del governo imperiale. La popolazione urbana crebbe in modo sproporzionato rispetto alle risorse delle città. L’approvvigionamento alimentare divenne sempre più difficile e i suoi enormi costi non erano più compensati dall’arrivo dei ricchi bottini di guerra.

Dalla crisi economica alla crisi politica

A partire dal III secolo, l’impero fu investito anche da problemi di natura politica. L’equilibrio politico si reggeva sul rapporto tra il governo e i grandi proprietari terrieri. Tuttavia, quando gli interessi delle aristocrazie non coincisero più con quelli dell’imperatore, tale equilibrio venne meno. Nelle mutate condizioni, si aprì uno spazio per l’operato di nuovi ceti formati da alti funzionari e capi militari.

L’apparato amministrativo dell’impero era così ampio e macchinoso da richiedere continuamente personale capace e fedele. Pertanto, divenne necessario reclutarlo anche al di fuori del solito ceto senatorio ed equestre, che da solo non bastava più. Ma il nuovo ceto di alti funzionari con il tempo maturò l’ambizione di arrivare anche al potere politico e di appropriarsene.

La crisi dell’esercito e la’umento delle tasse

Anche un altro apparato dell’impero entrò in crisi. L’esercito era reclutato nelle province ed era espressione di quei ceti rurali e delle zone periferiche. Inoltre, era retto da comandanti che non appartenevano più, come in passato, al ceto senatorio e per essi non vi era possibilità di ascesa sociale. La necessità di reperire risorse per il mantenimento del settore militare causava il progressivo aumento della pressione fiscale.

Queste tasse gravavano sui grandi proprietari terrieri, i membri del Senato e dell’ordine equestre, determinando continue tensioni con il governo e l’imperatore. Tuttavia, in questa situazione fu l’esercito a far sentire tutto il suo peso. Dal 235 al 284 ci fu il periodo detto dell’anarchia militare. Di fatto erano gli eserciti a scegliere gli imperatori tra i comandanti delle truppe. Naturalmente, l’autorità imperiale fu gravemente compromessa.

Le riforme per evitare la fine dell’Impero Romano

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Aureliano (270-275), Diocleziano (284-305) e Costantino (306-337) furono gli imperatori che tentarono di attuare una politica di riforma politica e amministrativa dello Stato per evitare la fine dell’Impero Romano. Si cercò di rafforzare l’autorità imperiale tramite la creazione di nuove strutture amministrative dipendenti dall’imperatore stesso e non più dall’esercito.

Per realizzare tutto ciò fu affrontata anche una riforma fiscale, soprattutto da parte di Diocleziano che ordinò il censimento di tutte le risorse dell’impero. In base ai risultati del censimento realizzò due forme di tassazione: l’imposta di capitazione (da caput, testa) che colpiva i singoli individui e l’annona che ricadeva sui terreni. Diocleziano affrontò anche il problema dell’inflazione ma i provvedimenti non diedero i risultati sperati. Anzi, con la perdita di valore della moneta si tornò al baratto.

Il calo demografico

Nella crisi generalizzata si registrò anche un calo demografico, causa ed effetto del peggioramento delle condizioni di vita. Nelle città, ai ceti più ricchi fu impedito di rinunciare alle cariche che divennero ereditarie, così come divennero ereditarie attività di pubblico interesse per evitare che venissero abbandonate per scarso ritorno economico.

Alcune categorie di commercianti e artigiani furono riunite in associazioni di mestiere e costrette al lavoro coatto a favore dello Stato. Anche l’esercito fu riorganizzato. Le frontiere furono rafforzate con nuove difese. Ai grandi proprietari terrieri fu imposto l’obbligo di fornire i soldati e, se avessero voluto conservare i loro coloni per lavorare la terra, avrebbero dovuto pagare una imposta in oro.

La tetrarchia di Diocleziano

Diocleziano
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Per esercitare un più stretto controllo sul territorio, l’autorità dell’imperatore fu suddivisa. Diocleziano inaugurò la tetrarchia, cioè il “governo dei quattro”. Questo sistema prevedeva la presenza di due imperatori (augusti) e due cesari, cioè due collaboratori ed eredi degli imperatori. Il primo augusto fu Diocleziano stesso e, con il suo cesare Galerio, governò la parte orientale dell’impero. L’altro augusto, Massimiano, e al cesare Costanzo Cloro, fu affidata la parte occidentale. Diocleziano e Galerio risiedevano a Nicomedia. Massimiano a Milano e Aquileia mentre Costanzo Cloro si stabilì a Treviri.

La tetrarchia durò poco, dal 293 al 305, anno in cui Diocleziano decise di abdicare. Tra gli altri regnanti si scatenarono violente lotte che terminarono con la vittoria del figlio di Costanzo Cloro, Costantino, che divenne l’unico imperatore dal 324.

La riforma amministrativo-territoriale

Più fortunata fu un’altra riforma stabilita da Diocleziano e continuata da Costantino, quella relativa alla creazione di un nuovo ordine territoriale. Le province furono accorpate, riducendone il numero ma aumentandone l’ampiezza, diventando le unità amministrative dell’impero. Le province furono raggruppate poi in diocesi, rette da un vicario, rappresentante dell’imperatore. Le diocesi furono infine raggruppate in quattro circoscrizioni: le prefetture d’Oriente, dell’Illirico, d’Italia e delle Gallie. Ognuna di esse era affidata a un dux.

Questa riorganizzazione richiedeva un gran numero di funzionari e comandanti per poter sopravvivere. Emarginata l’antica aristocrazia senatoria ed equestre, alle alte cariche potevano ormai accedere anche homines novi, un nuovo ceto composto da persone anche di bassa condizione sociale ma arricchitesi velocemente. Tutta questa organizzazione faceva capo all’imperatore che assommava su di sé tutti i poteri e che divenne oggetto di un processo di divinizzazione per ripristinare la sua autorità ed evitare così la fine dell’Impero Romano.

L’età di Costantino

Costantino
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Costantino (306-337), il nuovo e unico imperatore romano dal 324, considerò l’avvento del Cristianesimo come il mezzo tramite il quale rafforzare l’impero. La nuova religione, infatti, era caratterizzata da una diffusione capillare sul territorio e da una organizzazione ecclesiastica unitaria. Inoltre, essa rispondeva ai bisogni diffusi di carità e assistenza dei più poveri, alleviando in tal senso l’azione dello Stato.

Le riforme messe in atto dai predecessori di Costantino alla lunga avevano determinato squilibri. La tetrarchia non aveva funzionato a causa delle lotte interne che essa stessa alimentava. La nuova ripartizione in province, diocesi e prefetture aveva determinato diversità marcate da zona a zona. Costantino suddivise l’impero tra i suoi eredi ponendo la nuova capitale a Costantinopoli, cioè a Bisanzio (330).

La crisi di Roma

tramonto dell'Impero Romano
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La nuova ripartizione stabilita da Costantino determinò una fulminea crisi a Roma. Costantinopoli si sviluppò come capitale della parte orientale dell’impero, e, forte di una propria identità, iniziò a contrapporsi alla parte occidentale. Dal IV secolo la capitale dell’Oriente crebbe mettendo in ombra Roma, per la quale si avviò la decadenza come centro politico, ma non solo. Tutta la parte occidentale mostrò in breve tempo segni di decadenza perché disarticolata e indebolita dalle continue crisi che attraversavano tutti i settori.

La divisione e la fine dell’impero Romano avvenne ufficialmente alla morte di Teodosio, nel 395. A suo figlio Arcadio fu affidato l’oriente, all’altro figlio Onorio l’occidente. Entrambi furono affiancati da un unico tutore, il generale Stilicone. Di fatto ormai due entità distinte, presero così vita l’Impero romano d’oriente e l’Impero romano d’occidente.

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