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Il pensiero politico di Cicerone

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Marco Tullio Cicerone (Arpino, 3 gennaio 106 a.C. – Formia, 7 dicembre 43 a.C.) è stato un politico, scrittore, oratore e filosofo romano. Per comprendere al meglio il pensiero politico di Cicerone, occorre guardare alla Roma nel I secolo a.C.

Il pensiero politico di Cicerone

A partire dal Rinascimento e fino alla fine del XIX secolo, Cicerone è stato considerato uno dei modelli supremi di quello stile classico romano che ha imperniato la cultura occidentale. Ma sia nell’antichità sia nell’epoca medievale, il pensiero politico di Cicerone fu sempre considerato manchevole di coerenza e lungimiranza. Tuttavia, il suo operato deve essere letto alla luce della contestualizzazione nella politica del suo tempo, caratterizzata da un perpetuo e mutevole gioco di accordi tra singoli, gruppi di potere e famiglie nobili, che utilizzavano il partito di appartenenza per soddisfare obiettivi personali.

Qual era il pensiero politico di Cicerone e i valori su cui si basava? Come tutti i pensatori politici di rilievo, Cicerone, nel far fronte ai problemi della sua società e della sua epoca, fu portato a collocarli in un contesto più ampio e universale. Possiamo quindi avvicinarci al pensiero politico di Cicerone domandandoci innanzitutto quali fossero i particolari problemi sociali che la Roma in cui visse dovette affrontare e, in secondo luogo, in base a quali principi guida cercò una via d’uscita da tali problemi.

La Roma del I secolo a.C.

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La Roma del I secolo a.C. rappresentava il classico esempio di una società il cui sistema costituzionale non riusciva a tenere il passo con un cambiamento sociale veloce e ampio. La Repubblica Romana del periodo precedente la fine del III secolo a.C. era stata caratterizzata da un quadro costituzionale flessibile. Si era riusciti nella notevole impresa di ammettere le classi inferiori, i plebei, alla partecipazione al governo, accanto alla nobiltà, rappresentata dai patrizi. Infatti, assieme ai Consoli e al Senato, fu istituita la carica, senza precedenti nel mondo antico, del tribuno della plebe. Questo era eletto dai concilia plebis, assemblee che rappresentavano gli interessi dei plebei. La partecipazione dei plebei al governo avvenne senza violenti sconvolgimenti, ma attraverso secessioni pacifiche, in contrasto con le sanguinose lotte sociali che caratterizzarono i tempi di Cicerone.

La secessione della plebe fu una forma di lotta politica messa in atto dalla plebe romana tra il V ed il III secolo a.C. Essa consisteva nell’abbandonare in massa la città. Questo significava interrompere le attività produttive necessarie alla sopravvivenza della città stessa e dei cittadini, a cui si aggiungeva l’impossibilità di convocare le leve militari. La prima secessione avvenne nel 494 a.C. sul Monte Sacro, a seguito della quale la plebe ottenne l’istituzione delle concilia plebis.

La forza della plebe

Il successo dei plebei si deve leggere alla luce di due potenti mezzi che essi avevano nelle loro mani: la terra e le armi. Nella Roma repubblicana, proprietà e status militare erano strettamente legati. Infatti, non bisogna pensare ai plebei solo come alla massa popolare, ma a uomini i cui interessi erano principalmente agricoli e le cui piccole proprietà agrarie costituivano la base del loro status politico e sociale. Inoltre, i plebei rappresentavano anche gli uomini di cui la Repubblica aveva sempre più bisogno per rifornire gli eserciti.

La decimazione delle truppe causata dalla Seconda Guerra Punica, combattuta per ben 17 anni in territorio italiano, sembra essere stata determinante nella storia romana. La devastazione causata dalla guerra costrinse la maggior parte dei plebei ad abbandonare le proprietà fondiarie, che furono prontamente prese dai ricchi patrizi della classe senatoria. Il disgregamento sociale che ne seguì si manifestò con l’accumulo di grandi latifondi da parte di poche famiglie nobili, per le quali gli ex proprietari finirono a lavorare come affittuari, spesso in un regime simile alla schiavitù.

L’ingiustizia sociale e i tentativi di riforma

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Il risentimento provocato da questa ingiustizia sociale esplose nella seconda metà del II secolo a.C. Il tribuno della plebe Tiberio Gracco, ritenendo che alla base della crisi vi fosse la disastrosa situazione delle campagne, propose una riforma per ripristinare la piccola proprietà terriera. Ciò provocò la risposta violenta dei proprietari terrieri e l’uccisione di Tiberio stesso.

Dieci anni dopo, nel 122 a.C., fu eletto tribuno della plebe suo fratello Gaio che ripresentò la proposta di riforma agraria. Ancora fu rigettata violentemente dai Senatori. Gaio Gracco si fece uccidere da un servo, pur di non cadere nelle mani dei nemici. Quando Cicerone iniziò la sua carriera politica, intorno al 76 a.C., il panorama romano era lacerato da una serie di guerre civili tra fazioni rivali.

L’inizio della carriera politica di Cicerone

Cicerone, appartenente a una benestante famiglia dell’ordine equestre, scese in politica per rappresentare gli interessi degli equites, quei cavalieri che avevano fatto fortuna grazie all’espansione imperiale romana e che rappresentavano gli interessi economici della classe media. I fratelli Gracco, nei loro tentativi di riforma, avevano cercato di rendere l’ordine equestre l’altro ago della bilancia rispetto alla nobiltà senatoria, affidando loro le decisioni giudiziarie e la riscossione delle tasse, un ruolo chiave all’interno dello Stato. Tuttavia, al tempo di Cicerone gli equites si erano pericolosamente avvicinati alla fazione senatoriale. Lo stesso Cicerone fu un esempio di questa tendenza.

Dopo aver ricoperto le cariche di edile curule e di pretore, nel 63 a.C. Cicerone fu eletto console. Egli dimostrò tutto il suo attaccamento all’ordine esistente con la cruenta soppressione della cospirazione di Catilina. Quest’ultimo era un nobile caduto in disgrazia che ambiva a diventare console. Si candidò per tre volte ma la sua scalata politica fu sbarrata attraverso processi pretestuosi e brogli elettorali. Egli ordì una congiura per rovesciare la Repubblica grazie all’aiuto della plebe, cui prometteva radicali riforme. In risposta, Cicerone fece promulgare dal Senato un provvedimento che attribuiva poteri speciali ai consoli. Inoltre, egli convocò il Senato e pronunciò la violenta accusa a Catilina, la cui orazione si apre con la famosa frase “Fino a quando, Catilina, abuserai della nostra pazienza?”.

L’attaccamento alla tradizione di Cicerone

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Nelle quattro Catilinarie possiamo già ravvisare il pensiero politico di Cicerone. In quell’occasione, egli si presentò come il salvatore della costituzione tradizionale di Roma contro i reietti che tentavano di rovesciare l’ordine costituito. Il suo attaccamento alla tradizione emerge in tutta la sua produzione letteraria. Nelle opere De Republica, De Legibus e De Officiis egli affrontò più volte il tema di come preservare l’ordinamento tradizionale in politica e a livello sociale. In altre parole, di come mantenere inalterato lo status quo e i diritti della grande proprietà latifondista.

Tuttavia, i cambiamenti sociali furono più forti delle intenzioni. Prima della morte di Cicerone divenne lampante come la vecchia costituzione non era più in grado di andare di pari passo con le forze del cambiamento. Fu altresì chiaro che le riforme sociali richieste a gran voce dalla plebe potevano essere attuate solo da un governo autocratico e non dalla vetusta Repubblica. L’autocrazia prese forma con Cesare e Augusto. Cicerone lottò strenuamente contro la transizione, ormai avviata, del sistema di governo dalla forma repubblicana a quella imperiale.

La morte di Cicerone

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Subito dopo l’assassinio di Giulio Cesare il 15 marzo 44 a.C. a opera di Bruto e Cassio, Cicerone fu considerato colui che avrebbe ripristinato la Repubblica. Si schierarono così due fazioni: quella degli optimates, rappresentati da Cicerone e quella dei populares, rappresentati dal luogotenente e magister equitum di Cesare, Marco Antonio. Cicerone riuscì a ottenere l’impunità per Bruto e Cassio che fuggirono in Grecia. Con l’entrata sulla scena politica di Ottaviano, pronipote di Cesare ma determinato ad adottare una politica senatoriale, Cicerone prese pubblica posizione contro Antonio, sostenendo che il vero erede di Cesare era Ottaviano, l’unico capace di ristabilire l’antico ordine.

Tuttavia, Ottaviano a un cento punto scelse la via di mezzo e istituì, assieme ad Antonio e a Marco Emilio Lepido, il secondo triumvirato. Cicerone non arretrò di un passo nella sua opposizione ad Antonio. Quest’ultimo decise di inserire il famoso oratore nelle liste di proscrizione, condannandolo così a morte. Fu ucciso da sicari nella sua villa di Formia il 7 dicembre 43 a.C.

Il pensiero politico di Cicerone

Soprattutto nell’ultima fase della sua vita (in questo articolo puoi leggere una breve biografia di Cicerone), il pensiero politico di Cicerone fu dominato da una preoccupazione: come evitare le lotte tra frazioni che stavano distruggendo l’antica vitalità civica di Roma. In De Republica, Cicerone illustra i principi e i valori alla base di una sana repubblica. L’opera vede come protagonista principale del dialogo Scipione Emiliano (185-129 a.C.), uno statista politico che nella sua carriera unì le antiche virtù civiche romane con il mecenatismo. Egli è il portavoce del pensiero politico di Cicerone che, tramite la scelta di questo personaggio, volle sottolineare il carattere concreto e pratico dell’attività politica.

La tesi a favore del pragmatismo viene espressa nella definizione di cosa sia uno Stato, contenuta nel primo libro del De Republica: “La ricchezza è proprietà di un popolo”. Una frase che indica il collegamento tra autorità politica e proprietà. Cicerone sembra rivolgere un appello di carattere storico ai tempi in cui la forza di Roma risiedeva nei suoi liberi proprietari, ma fa anche una distinzione tra proprietà pubblica e privata. La stessa parola per «Stato», res publica, porta con sé un evidente contrasto con il suo opposto, res privata.

Come amministrare la res pubblica

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Come dovrebbe essere concretamente amministrata questa res publica? Egli sostiene con forza la tesi a favore dell’aristocrazia, basandosi principalmente sul fatto della naturale disuguaglianza di abilità e virtù, e implicando la necessità di un ordine politico basato sul riconoscimento di tale fatto, quindi su una gerarchia. Lo stesso principio di gerarchia giustifica la preferenza della monarchia che Scipione Emiliano, portavoce di Cicerone, presenta come la migliore delle tre forme tradizionali di governo. Cicerone, tuttavia, mostrò di preferire una forma mista di governo che si basava sulla combinazione delle migliori caratteristiche della repubblica e della monarchia.

La Legge Naturale e la proprietà privata

Nel pensiero politico di Cicerone occorre tenere presente la Legge Naturale, tema sviscerato in tutti i suoi principali trattati politici. Egli intendeva, cioè, una legge alla quale tutti gli esseri razionali dovrebbero conformare la propria condotta. Cicerone evidenzia il contrasto tra la solidarietà razionale tra i propri simili, che egli considera alla base di tutti gli Stati politici, e il desiderio individuale di acquisizione egoistica del vantaggio personale. Questo contrasto si traduce in una ferma difesa della proprietà privata, la cui tutela considera dovere fondamentale della società civile. Ecco allora che: “La preoccupazione principale di coloro che sono responsabili della gestione degli affari pubblici sarà quella di assicurarsi che ogni uomo sia sicuro dei suoi beni e che non vi sia alcuna violazione dei diritti privati ​​da parte del governo. Questa, infatti, è la ragione per cui sono stati creati gli stati e le repubbliche“.

Qui emerge decisamente tutta l’adesione di Cicerone al conservatorismo. Egli condanna ogni tentativo di ridistribuzione della proprietà privata, ad esempio tramite riforme agrarie, o la cancellazione dei debiti, in quanto contrari non solo alla legge dello Stato ma anche alla Legge Naturale. Ma Cicerone aveva tutto l’interesse nel difendere con forza quest’ultima. Egli difendeva i valori e le istituzioni tradizionali in cui si identificava la sua stessa classe sociale di appartenenza. Tali valori e istituzioni apparivano minacciate da uomini, come lo stesso Cesare, che guardavano sempre più a misure extra-sociali.

La solidarietà comunitaria

La tutela dei diritti individuali, espressi in particolare nella proprietà, non era però l’unico assioma cardinale del pensiero politico di Cicerone. Egli era anche animato da una sincera preoccupazione per il declino della solidarietà nella società romana del suo tempo. In De Republica, l’autore scrive a favore di una comunità associata nel perseguimento della giustizia e del bene comune. Egli considerava il sentimento di comunione indotto da questo scopo comune come la legge eterna della natura stessa. Dunque, Cicerone indirizzava i suoi scritti e i discorsi contro coloro che, secondo lui, erano i principali nemici della solidarietà comunitaria: la faziosità partitica da un lato e la tirannia dall’altro.

La faziosità partitica e la concordia ordinum

Optimates e Populares
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Nell’opera De Officiis, Cicerone affronta le cause dell’ascesa delle fazioni in uno Stato e sostiene che esse siano il frutto di un governo che ha scelto di diventare rappresentante degli interessi di una sola parte della comunità, mentre dovrebbe provvedere al benessere dell’intera comunità. E la Repubblica Romana del suo tempo rappresenta perfettamente questo errore, con le divisioni in partiti aristocratici e democratici (Optimates e Populares).

La soluzione di Cicerone per la faziosità partitica che mette in pericolo lo Stato romano, era la concordia ordinum, l’armonia tra le classi. Tuttavia, Cicerone non spiegò mai come si potesse attuare nella pratica tale armonia. Nel De Republica, egli introduce una figura non ben chiara, che di volta in volta egli presenta come ‘moderatore‘, ‘protettore della repubblica’ o ‘governante’. Altrettanto nebulosi appaiono i compiti di questa figura: “direzione dello Stato”, “capo della Stato”, “l’uomo il cui scopo è il benessere dello Stato”. Forse un tiranno benevolo? Vista la strenua opposizione di Cicerone all’autocrazia delineatasi con Giulio Cesare e Augusto è difficile inquadrare tali espressioni.

De Legibus e il Senato

Nello scritto De Legibus, Cicerone rinuncia al tentativo di ricostruire lo Stato attorno a un sistema ideale e simbolico e passa a trattare la legge e la sua forza, viste come il vero potere capace di tenere unito e saldo lo Stato. Cicerone offre così un codice costituzionale molto dettagliato da adottare concretamente a Roma. Molte delle sue disposizioni conservano elementi già attivi nella pratica costituzionale romana, ma egli le affina per dare piena espressione all’equilibrio dei poteri che considera fondamentale per la sopravvivenza della Repubblica.

Il tutto, però, favorevolmente sbilanciato a vantaggio dei senatori e delle classi più abbienti, anche se egli mira a soddisfare qualche aspirazione dei plebei, ad esempio attraverso il tribunato. Cicerone esalta il Senato come élite capace di determinare l’intera vita comunitaria. Le elezioni dei funzionari statali vanno mantenute saldamente nelle mani dell’aristocrazia mediante il ripristino della pratica dello scrutinio palese.

Il fallimento del pensiero politico di Cicerone

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Dopo aver analizzato a grandi linee il pensiero politico di Cicerone, appare chiaro il fallimento nel fermare le pressioni verso i grandi cambiamenti sociali e, di conseguenza, politici. Cicerone non voleva vedere i reali problemi della società romana del suo tempo. Ad esempio, non si rendeva conto (o non voleva rendersi conto) che il raggiungimento dell’auspicata armonia tra le classi sarebbe stato possibile solo tramite il drastico ridimensionamento dell’aristocrazia senatoriale, dei suoi poteri e ambizioni sulla vita agricola, commerciale e finanziaria di Roma. Riformatori come Tiberio Gracco avevano tentato di effettuare questo passaggio legalmente, rivoluzionari come Catilina avevano cercato la via della forza. A differenza di Cicerone, i Cesari furono consapevoli di tutto ciò. Si fecero promotori di un lungo periodo di stabilità sociale, mettendo sotto mandato la Repubblica e utilizzando i poteri di cui disponevano per fare ampie concessioni alle masse.

Il prezzo pagato fu la perdita della libertà, così come l’aveva conosciuta la Repubblica e per la quale Cicerone aveva combattuto. Ma pochi se ne accorsero e non c’è di che stupirsi. Ai plebei e ai soldati affamati di terra, ai discendenti dei liberi agricoltori ridotti in semi schiavitù dagli eventi degli ultimi due secoli, il pensiero politico di Cicerone e il suo programma attuativo dovettero apparire fastidiosamente accademici, dato il loro carattere strettamente costituzionale e il suo totale diniego di prevedere anche solo una riorganizzazione economica.

Dopo la morte di Cicerone

Dopo la morte di Cicerone certamente in molti si sentirono al sicuro. Ma il nuovo ordine voluto da Augusto dovette fare i conti con molti aspetti del pensiero politico di Cicerone. Il primo imperatore romano si mostrò determinato nell’evitare l’errore di Giulio Cesare di rompere troppo bruscamente con la tradizione politica. Per oltre 200 anni gli imperatori diedero la parvenza di essere semplicemente i primi cittadini di una repubblica libera. Ma quando le differenze nazionali all’interno dell’Impero cominciarono ad appianarsi, si iniziò a percepire la forza del pensiero politico di Cicerone imperniata sulla Legge di Natura, che travalicava le differenze individuali e razziali.

Nei momenti più bui dell’autocrazia imperiale, l’idea di Cicerone del governo come servizio pubblico nell’interesse della giustizia e del bene comune iniziò a essere valorizzata. Con la caduta dell’Impero, l’arrivo dei Barbari e l’affermarsi del Cristianesimo, Cicerone non perse il suo fascino e continuò a essere apprezzato nel Medioevo come filosofo. Grande considerazione ebbe di lui il Rinascimento come statista ed eloquente oratore.

Il Cicerone politico nell’età moderna e contemporanea

I concetti ciceroniani di Legge Naturale e di giustizia universale hanno gettato le basi per lo sviluppo del diritto naturale, influenzando pensatori come John Locke e Thomas Jefferson. Le idee di Cicerone sulla repubblica e sul governo misto, che combinano i migliori elementi della monarchia, dell’aristocrazia e della democrazia, sono state fondamentali per la formazione delle istituzioni politiche moderne.

Il pensiero politico di Cicerone ha enfatizzato l’importanza della virtù e dell’etica nel governo, sostenendo che solo uomini moralmente retti possono guidare uno Stato giusto e stabile. Questo principio ha trovato eco nel pensiero di filosofi come Montesquieu e Rousseau, che hanno sottolineato la necessità di un equilibrio di poteri e di una cittadinanza virtuosa per la preservazione della libertà e della giustizia. Inoltre, l’eloquenza e l’arte oratoria di Cicerone hanno stabilito un modello di retorica politica che è stato ammirato e imitato per secoli.

Riassumendo

  • Cicerone è stato l’ultimo, grande difensore della Repubblica, molto legato al mos maiorum (morale tradizionale della civiltà romana). Dalla sua parte vi erano gli optimates, gli aristocratici, e il ceto equestre.
  • Egli si adoperò enormemente per difendere la libertà della Repubblica e per non farla cadere. Difese lo status quo e i diritti dei grandi proprietari terrieri.
  • Cicerone era sostenitore della concordia ordinum, cioè della concordia di tutti i cittadini onesti e perorò questa causa nell’orazione contro Catilina.
  • Cercò di creare un’alternativa al potere dei triumviri.

Le opere politiche di Cicerone

Due sono le principali opere in cui Cicerone espresse il suo pensiero politico. Tali testi maturarono nell’ambito delle pressanti minacce alla Repubblica e allo status quo, con lo scopo di ribadire la necessità dell’esistenza della res publica aristocratica in cui cicerone aveva fermamente creduto.

De re publica

Il De re publica è un trattato in forma dialogica di filosofia politica in sei libri. L’opera fu scritta tra il 55 a.C. e il 51 a.C., cioè nel periodo in cui la res publica appariva in forte crisi. La forma di governo, infatti, già a partire dal tribunato dei Gracchi era rappresentata da uomini spregiudicati che non rispecchiavano l’ideale di virtus. Cicerone, dopo l’esperienza dell’esilio e la delusione del primo triumvirato, visse questi eventi con paura per la fine della res publica. L’autore scrisse il De re publica con la forma del dialogo platonico, ambientato nella villa suburbana di Scipione Emiliano, assieme a personalità del suo gruppo. A differenza di Platone, però, non affrontò tematiche relative allo Stato ideale ma i problemi concreti dello Stato dal punto di vista istituzionale. In ques’opera prevale una visione aristocratica e conservatrice. L’ordine e il funzionamento dello Stato, per Cicerone, devono poggiare solo sul lavoro congiunto di consoli e senato.

Infatti, nel De res pubblica, l’autore corregge la teoria polibiana dell’ideale della costituzione mista, per cui l’equilibrio delle tre forme di governo non può essere totale. Il popolo, infatti, rappresenta l’irrazionalità e l’elemento di “disturbo”, in quanto portatore di disordini. Per questo, nel Pro Cluentio, Cicerone aveva ipotizzato la concordia ordinum, per superare gli interessi particolaristici a favore della pace sociale. Cicerone giustifica l’imperialismo romano confutando la tesi del filosofo Carneade che rifiutò l’idea di una “guerra giusta”. Per il nostro autore, un impero che porta leggi civili ad altri popoli è “giusto”. L’opera in questione introduce la figura del princeps, il governatore ideale che giuda lo Stato per il bene pubblico e non quello personale.

De legibus

Scritto in forma dialogica sulla base dell’omonima opera di Platone intorno al 52 a.C., del De Legibus ci rimangono tre dei cinque libri originari. In quest’opera, Cicerone mostra un chiaro favore verso la dottrina stoica, utilizzata per difendere le vecchie leggi costituzionali, interpretate con spirito conservatore. In base a queste premesse, secondo Cicerone ogni legge e ogni istituzione era giustificata al fine di mantenere il potere nelle mani della classe dirigente.

I dialoghi sono ambientati nella villa di Cicerone ad Arpino e vedono come protagonisti Cicerone stesso, Attico e il fratello Quinto. I temi principali sono l’origine naturale del diritto, l’evoluzione storica della legislazione pubblica, civile e religiosa, i doveri dei magistrati e dei cittadini, la visione politica di un conservatore.

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